Piccolo Teatro Occupato, atto finale

Concedeteci di raccontare in modo epico questa storia,

perché epica questa storia lo è nel suo cuore più profondo.

(Domenico Ferrari)

Foto di Helga Bernardini

Dopo 38 giorni di occupazione si è conclusa l’esperienza del “Piccolo Teatro Aperto” con l’apposizione di una targa sulla facciata del teatro ed un flash mob accompagnato dalla tromba di Raffaele Kohler che ha raggiunto il Castello Sforzesco.

Riportiamo qui di seguito il testo del drammaturgo Domenico Ferrari sul significato dell’esperienza appena conclusa, letto al momento dell’affissione della targa.

Se avessimo seguito solo il nostro interesse individuale non saremmo entrati qua dentro.

Se avessimo seguito il buon senso non saremmo entrati qua dentro.

Se avessimo voluto vivere tranquilli non saremmo entrati qua dentro.

Se non ci fossimo posti domande scomode non saremmo entrati qua dentro.

Se non avessimo voluto porre domande scomode non saremmo entrati qua dentro.

Non è un posto comodo qua dentro.

È stato un gesto di follia. Ma di una follia sacra, creatrice. Diciamolo, sana.

Neruda ha scritto che la pazzia, una certa pazzia, va molte volte a braccetto con la poesia. E questo è il primo dato, la prima parola chiave: poesia. Noi siamo lavoratori e lavoratrici che però maneggiano una merce diversa dalle altre, la poesia, che tra le materie prime a disposizione di questo mondo è la più preziosa e inesauribile.

E non stiamo parlando solo degli artisti, parliamo di tutti: dei tecnici, delle sarte, degli attrezzisti, dei facchini. Ogni nostra mansione professionale, anche quella apparentemente più umile, è una mansione non creativa ma creatrice.

Come si diceva qualche giorno fa, alla consegna della nostra proposta di legge, il lavoratore dello spettacolo è felice di fare il suo lavoro. Trova piacere nel farlo. Perché? Perché sa che sta contribuendo a creare qualcosa di unico, un immaginario, un sogno, un’estasi collettiva.

E questa è la seconda parola chiave: collettivo. Serena Sinigaglia ci ha raccontato come il teatro sia nato politico, alla base della vita della polis, strumento attraverso cui l’abitante della città si fa cittadino; ma, prima ancora che nella razionalizzazione della tragedia, il teatro nasce nel rito, in quel rito dionisiaco, non a caso legato alla sacra follia, in cui i corpi prima ancora che le menti venivano messi in gioco, compartecipavano, si fondevano, si facevano comunità.

Il teatro è quindi l’arte della comunità e del corpo.

E questo significa due cose:

primo, che riaprire i teatri non vuol dire aprire una porta, tornare a sbigliettare, programmare o produrre spettacoli (chi può… ovviamente pochi).

Significa invece accogliere la società, entrare in empatia con essa, ricevere storie di donne e di uomini che qui vengono per ascoltare ma anche per essere ascoltati.

Lo abbiamo detto con Renato Sarti: il nostro mestiere è quello di raccontare storie, ma per raccontare bisogna prima ascoltare, cercare l’umano a ogni costo.

Zavattini diceva: “L’arte, io non lo so se sia eterna o provvisoria, ma so che questa carica, che noi abbiamo oggi, è una carica di comprensione della vita“.

Ma quante volte noi siamo entrati in un teatro e abbiamo sentito che questa vita mancava?

Il nostro essere stati un Piccolo Teatro Aperto rispondeva appunto a questa mancanza. Ci siamo aperti alla collettività, all’altro, all’umano. Una collettività fatta di corpi vivi.

E qui c’è il secondo punto: chi è stato qui dentro ci è stato con il proprio corpo, con attenzione certo, ma senza quella cosa orribile e fuorviante che chiamiamo distanziamento sociale, anzi cercando il massimo della vicinanza sociale.

Siamo stati qui dentro col nostro corpo, con la nostra presenza fisica. Lo abbiamo presidiato, respirato, accudito come un figlio, pulito, sanificato, ci abbiamo mangiato e cagato, ci siamo appisolati e abbiamo urlato,  abbiamo cantato e danzato, lo abbiamo amato e odiato, riempito e svuotato come un polmone, percorso febbrilmente come sangue in un’arteria spinto dalle martellate di un cuore invisibile.

Ci abbiamo messo la faccia, e non solo. Ci abbiamo perso il sonno, sacrificato il nostro tempo, gli affetti familiari, a volte anche il lavoro…

E lo abbiamo fatto perché sappiamo che quando arriva il momento della scelta ci sono solo due risposte: esserci o non esserci. E il dubbio amletico in questo momento è un lusso che non possiamo più permetterci.

E a questo punto avremmo voluto rivolgerci a chi qui dentro, pur potendo, non ha voluto metterci piede.

Quelli che gli striscioni fanno troppo centro sociale.

Quelli che si chiedono perché ci sono gli studenti (e io rispondo perché no?).

Quelli che non capiscono perché siamo contro il Piccolo (e noi rispondiamo non siamo mai stati contro il Piccolo).

Quelli che non hanno capito, o voluto capire.

Quelli che non hanno sentito, o voluto sentire.

Quelli che siamo solidali ma solo davanti alle telecamere.

Quelli che il sistema è marcio ma non è questo il modo.

Il sistema è marcio ma non è questo il momento.

Il sistema è marcio ma non sono queste le parole.

Il sistema è marcio ma io ora ho cose più importanti da fare.

Quelli che bisogna cambiare ma andate avanti voi.

A tutti loro avrei voluto dire che hanno perso un’occasione.

Ma sinceramente preferiamo parlare di chi era qui e a cui ora ci lega un affetto che è non per amici, ma per compagni.

Compagno non è una reminiscenza nostalgica veterocomunista. Ma una parola densa di significato: cum-panis. Mangiare lo stesso pane.

Noi siamo coloro che dividono il pane che questo Stato ci nega, da più di un anno.

E abbiamo fatto quello che abbiamo fatto solo perché abbiamo saputo essere uniti, navigando assieme nella tempesta, come ci hanno insegnato gli studenti con la loro prima performance sulla nave Argo.

E qui sicuramente molti di noi sorrideranno, pensando che non eravamo per niente uniti. Litigavamo di continuo.

Ed è vero, litigavamo. Non eravamo mai d’accordo su niente: se si parlava di cultura non si parlava abbastanza di lavoro, se si parlava di lavoro non si parlava abbastanza di cultura, una volta troppo per i tecnici, una volta troppo per gli attori, una volta troppo per gli studenti…un disastro.

Ma consapevolmente ora edulcoriamo le cose.

Concedeteci di raccontare in modo epico questa storia, perché epica questa storia lo è nel suo cuore più profondo.

Perché vi assicuro che pochi avrebbero fatto quello che abbiamo fatto noi, e pochi lo hanno fatto in passato. Perché come noi ricordiamo la Comune di Dario Fo, tra 20 o 30 anni ricorderanno l’occupazione del Piccolo. Perché è troppo facile dire “quando c’era Strehler…”, rifugiandosi in un passato idealizzato che in realtà aveva gli stessi difetti e limiti del nostro presente. Più difficile è mettersi in gioco, sputare sangue, rischiare, come abbiamo fatto noi.

E certo, abbiamo sbagliato, siamo stati pieni di limiti.

Ma noi ci siamo autodefiniti parlamento culturale permanente. Abbiamo cioè scelto la strada sconnessa della democrazia.

E la democrazia è il sistema dell’errore non della verità. Il campo che esplora le possibilità delle relazione dei molti e che non è determinato dalla volontà del singolo.

E quindi viva anche i nostri errori, perché sono un valore, sono vita, sono ricchezza.

Abbiamo detto follia, poesia, corpo, comunità… ora diciamo “amore” e diciamo “rabbia”.

Susan Sontag diceva che essere amati significa essere riconosciuti.

Amare è riconoscere, riconoscersi a vicenda.

E’ questo il senso della passione politica e della passione per la cultura.

Noi vogliamo essere riconosciuti come categoria, come classe di lavoratori e lavoratrici, ma siamo stati qui dentro anche per riconoscere le fragilità della società in cui viviamo e operiamo, come dimostra la presenza degli studenti (ecco perché sono qui!), come ha dimostrato l’incontro con i lavoratori della logistica, o l’incontro su teatro e carcere, o quello sulla cura, o quello con Amleta…e mi spiace per le tante cose che stiamo dimenticando e per quelle che avremmo voluto ancora fare e che non siamo riusciti a organizzare.

Ma questo amore non è contemplativo. Si è trasformato in azione, in rabbia.

Rabbia per un mondo che potrebbe essere migliore ma non lo è, per un ministro che non ascolta, per una classe politica troppo spesso impreparata e indegna, per un sistema che dovrebbe cambiare ma che si ostina nella sua egoistica immobilità.

Ed è per questa rabbia che, anche fuori da qui, noi non ci fermeremo.

Non ci fermeremo perché ce lo vieta la nostra stessa coscienza di lavoratori e di poeti.

Compagni, è giunto il momento di calare il sipario e di prepararsi per un nuovo spettacolo.

Come cantava Jannacci “dai allunga il passo, perché ci vuole dignità”.

Ed ora usciamo da qui ed inondiamo questa città come un fiume di rabbia!

3 Maggio 2021